«Turismo: ripartire dal brand Italia», l’intervista a Marco Carlomagno

22 Giugno 2020 

Il segretario generale di FLP, Federazione Lavoratori Pubblici e Funzione Pubblica, racconta in esclusiva per Traveller Italia quali sono le chiavi di svolta per il turismo italiano post Covid-19.

Rilanciare il turismo partendo dalle linee base comuni e dalla trasformazione dei burocrati in semplificatori. Ne è convinto Marco Carlomagno, segretario generale di FLP, Federazione Lavoratori Pubblici e Funzione Pubblica, che abbraccia tutti i settori del pubblico impiego ma anche le associazioni dei professionisti, per un totale di 200mila iscritti, 80mila dei quali nel settore privato, sia singoli che enti.
Protagonista, insieme a selezionati ospiti del Digital Debate sul futuro del turismo organizzato da Hdrà, Carlomagno propone un confronto aperto con il Governo e si fa portavoce di quel cambio di marcia del settore pubblico richiesto a gran voce anche agli Stati Generali tenuti questa settimana a Villa Pamphilj di Roma.

Che cosa pensa delle iniziative previste dal piano Colao per il rilancio del settore turistico?
«Pur apprezzando l’idea di mettere al centro del rilancio le questioni del turismo e del patrimonio artistico, culturale e paesaggistico, ritengo che l’approccio sia ancora troppo timido e riduttivo. Il turismo, secondo i dati pre-Covid, impatta direttamente per il 5,5% sul Pil, mentre se consideriamo l’intero comparto arriviamo al 13%: numeri importanti, che danno la misura di quanto il settore sia strategico in termini innanzitutto economici. È vero che con il decreto Cura Italia e il decreto Rilancio sono state attivate iniziative mirate a far fronte alla crisi derivante dall’eccezionale emergenza sanitaria, ma ora è necessario intervenire con una visione più ampia, affinché questa macroarea torni ad essere competitiva».

La pandemia ha avuto un effetto destabilizzante: non è semplice far ripartire, a estate già iniziata, una macchina imponente come quella del comparto turistico, che è rimasta ferma a lungo. Qual è secondo lei la priorità d’intervento?
«Tra i tanti effetti devastanti che ha avuto, la pandemia ha offuscato il nostro brand Italia. È da lì che bisogna ripartire e possiamo farlo attraverso un progetto di ampio respiro che veda da un lato una precisa strategia di comunicazione mirata e di valenza internazionale, dall’altro la stipula di accordi internazionali per promuovere corridoi turistici sicuri attraverso il potenziamento, in primis, dei servizi rivolti ai viaggiatori, in un’ottica di turismo sostenibile e con l’aiuto anche delle nuove tecnologie. Trovo positiva la scelta da parte del governo di investire sulla valorizzazione dell’Italia meno conosciuta, attraverso azioni di rafforzamento e promozione di specifiche filiere, come ad esempio i borghi, i siti culturali territoriali, anche sfruttando le eccellenze enogastronomiche del nostro Made in Italy. Ma anche in questo caso è necessario un progetto strutturato e di visione futura. Insomma, gli obiettivi ci sono e sono ambiziosi. L’auspicio è che oltre alle buone intenzioni ci siano anche i fatti. In quest’ottica, d’accordo con le regioni e gli enti locali, è necessario rafforzare la capacità direzionale del governo centrale attraverso la ridefinizione degli ambiti principali d’azione di ciascuno».

Iniziamo a ipotizzare anche dei percorsi strategici di ripresa…
«La partita sul turismo non può essere vinta se si agisce come si è sempre fatto: questa pandemia modificherà determinate strutture organizzative e il settore pubblico dovrebbe fornire le redini. Ciò vale per il commercio, ma si può applicare anche alla cultura. Dobbiamo ipotizzare un turismo diverso, guidato, un modello consono che fidelizzi il cliente, con servizi e itinerari, e non un “mordi e fuggi” che poteva funzionare in tempi di abbondanza economica. La pubblica amministrazione deve essere proattiva, deve saper prevenire i bisogni dei cittadini. Dobbiamo avere una strategia oggi, progettare ciò che sia possibile far fare ai cittadini, alle imprese, agli alberghi. Avere una strategia significa saper già usare al meglio i fondi che arriveranno».

Lei rappresenta il personale della pubblica amministrazione, che va dai ministeri fino al più piccolo comune d’Italia. In sostanza, un insieme che è la chiave di volta per un cambiamento del motore organizzativo del Paese che lo porti a essere in linea con i nuovi bisogni post Covid-19. Come si pone la vostra rappresentanza?
«Una fase storica così delicata ci impone di guardare oltre i nostri particolari interessi. Come rappresentanti dei dipendenti pubblici abbiamo certamente il dovere di proteggere il nostro lavoro e i nostri contratti, ma la priorità in questo momento è pensare al futuro del Paese e alle sfide che ci attendono sul piano economico e sociale. La pubblica amministrazione ha un ruolo strategico nel sostenere le policy del Governo, ma questo obiettivo è compatibile solo con una visione chiara in tema di riforme istituzionali e su un programma solido di investimento nella formazione di nuove competenze. È pensabile che nel 2020 la macchina amministrativa si muova con 8.000 comuni, 107 provincie, 20 regioni e altre migliaia di enti? È immaginabile che un paese abbia un ordinamento per metà federale e per metà centralizzato? Da molte parti si invoca un cambio di passo in cui gli amministratori diventino dei facilitatori del meccanismo amministrativo. Certo, ne siamo consapevoli: ma come possiamo farlo senza chiare direttive? Su questa linea siamo pronti al dialogo con il Governo e infatti quelli della riorganizzazione della pubblica amministrazione e dello snellimento delle procedure burocratiche sono due dei quattro punti che abbiamo presentato agli Stati Generali dell’economia di Villa Doria Pamphilj all’interno di un nostro documento sull’innovazione tecnologica del Paese».

È evidente quindi che, al di là delle direttive governative, i dipendenti pubblici hanno un ruolo centrale nei futuri cambiamenti strutturali dell’amministrazione pubblica, soprattutto in quanto italiani. Secondo lei quali attitudini saranno vincenti?
«Le pubbliche amministrazioni servono e hanno un ruolo centrale all’interno di una nazione se sono in grado di soddisfare i bisogni e, quindi, i lavoratori pubblici non possono limitarsi a fare il proprio lavoro disinteressandosi se e in che misura questo porta a una soddisfazione delle aspettative dei cittadini. L’altro aspetto indispensabile è la riscoperta di un concetto antico, ovvero la solidarietà: una parola che richiama all’orecchio la carità o la filantropia, e che oggi deve essere molto di più degli atti temporanei di semplice compassione. Bisogna prendere coscienza che siamo per davvero tutti sulla stessa barca, tutti interdipendenti e che quindi i miei bisogni hanno più probabilità di essere soddisfatti insieme ai tuoi, piuttosto che a scapito dei tuoi. La solidarietà è un concetto che si rifà a un individualismo razionale contrapposto a quell’individualismo irresponsabile che vuole che ciascuno possa e debba soddisfare sé stesso anche a scapito del prossimo. Quest’ultima è una logica che, ammantata da giustificazioni provenienti dall’ideologia liberista, ha prodotto non solo la deregolamentazione delle leggi sul lavoro, la disintermediazione, l’economia basata esclusivamente sui rapporti di forza e sulla asserita giustezza delle disuguaglianze, ma non è stata in grado di garantire un equilibrio economico né tantomeno sociale. Quindi dico: usiamo il lato positivo della pandemia per ripartire mettendo al centro valori come la solidarietà e una qualità della vita di relazione. La pubblica amministrazione deve lavorare per questo».

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fonte: www.vanityfair.it